"Così, tra i bagliori delle prime luci, risuonò per la vallata il canto angelico,
annunciando il glorioso ingresso in Cielo dell'anima candida del mite Nicolò"
STORIA → La Vita di San Nicolò Politi
1. La nascita e l'infanzia
All'epoca in cui regnaca il Conte Ruggero che aveva liberato la Sicilia dai Saraceni (Ruggero II, secondo il padre gesuita Ottavio Gaetani), in una centro abitato dalle antiche origini in provincia e diocesi di Catania, Adrano (Adernio, Hadranum, Adernione, Adernò, Dernò, Adarnù, Darnù, Adarnò, Darnò, Adirnò, Dirnò, Adernù, Dernù), viveva un giovane adolescente dell'illustre casato Politi di nome Nicolò.
La prima testimonianza scritta esistente oggi che attesta l'epoca in cui si svolse la vicenda terrena del santo è della seconda metà del cinquecento. Per alcuni tratti salienti della sua vita, questa, si rifà a un'antica liturgia in lingua greca del XII-XIII secolo in onore di San Nicolò Politi d'Adrano presso Catania di cui è rimasta la trascrizione di alcuni kontakion, nonché l'inno (probabilmente acatisto) scritto da Cusmano Teologo poco dopo la morte del santo.
Egli nacque un dì a noi sconosciuto (dell'anno 1117 secondo p. O. Gaetani), benedicendo la famiglia Politi.
I genitori, colmi di speranza e fede in Gesù Cristo e nella Madre di Dio, lo ottennero dal Signore dopo molte preghiere ed opere di carità.
Un autore ottocentesco di Adrano, il sac. Salvatore Petronio Russo, riporta i nomi dei genitori di Nicolò: Almidoro (Albidoro) e Alpina (Albina), dopo averli trovati scritti a mano sulla vita del santo presente tra le pagine del volume di Ottavio Gaetani allora custodito presso la biblioteca dei padri cappuccini di Adrano. Un autore palerminato, Filadelfo Mugnos, nel seicento afferma invece di un antico manoscritto in cui erano riportati i nomi dei genitori del santo, tuttavia nella sua opera manoscritta giovanile non li trascrisse e lasciò uno spazio vuoto per questi nomi.
Il tenero pargolo fu accolto come un dono del Cielo. La misericordia di Dio, rendendo merito alla superba fede mostrata da quella coppia di sposi, fece sgorgare una tiepida sorgente ove venne gettata l'acqua con la quale il bimbo fu lavato dopo la nascita.
Questo miracolo appartiene alla tradizione popolare seicentesca e tutt'oggi viva nella città di Adrano, facendo sì che la Chiesa dedicata al Santo eremita concittadino fosse eretta sui resti di quella che la memoria della gente dell'epoca ricordava come la casa natia del santo, nei pressi del quartiere di uno dei Caid della città, oggi detto Gaiti, proprio dove è narrato che sia sgorgata la fonte miracolosa e dove, durante la costruzione della chiesa, avvennero vari prodigi.
Cogliendo già in fasce il dono della fede per mezzo dei genitori, già dall'infanzia iniziò ad astenersi dal latte materno il mercoledì, il venerdì ed il sabato, crescendo comunque in salute e nella grazia di Dio, destando gran meraviglia presso conoscenti e familiari.
Educato dagli affettuosi genitori fin dai teneri anni alla preghiera ed alla carità, fu istruito da uomini religiosi. Con molta probabilità i suoi insegnanti furono monaci greci.
Il poeta seicentesco Placido Merlino indica come istitutore del santo tal maestro Don Andrea del medesimo casato dei Politi. In ogni caso è indubbio un avviamento allo studio delle sacre scritture, alla lettura ed alla scrittura, secondo la tradizione e la cultura siculo-greca del tempo. Non si trascuri che allora le lingue che avremmo potuto ascoltare tra le vie dell'antica Adernio erano il greco, l'arabo, il latino e forme dialettali locali molto simili al siciliano.
Non è possibile escludere un influsso neolatino di stampo benedettino seguente all'arrivo dei Normanni, tuttavia l'analisi delle possibili date in cui si sviluppò l'infanzia e l'insieme delle evidenze paleografiche coeve al santo mi fa propendere per ritenere che in quegli anni Adrano presentasse una più solida e più diffusa presenza culturale e spirituale di tipo cristiano greco prescismatico, oltre a quella saracena e anche ebraica (come in molte parti dell'isola) e che la latinizzazione dovette progredire qualche tempo dopo, probabilmente in maniera più rapida che nel resto della Valle di Demenna. Un indizio che potrebbe confermare l'asserto è rintracciabile anche nella scelta operata dal santo di dirigeri verso il centro della Valle di Demenna (pur volendo questa suggerita dal Cielo), piuttosto che verso Troina, Catania o in uno qualunque dei paesi pedemontani, in Calabria o altrove.
2. Giovinezza alle falde dell'Etna
Il piccolo Nicolò crebbe tra le vie della bella Adrano, quasi una piccola città ricca di acque con un territorio rigoglioso.
Oltre le mura della città, vide l'incanto della valle del fiume Simeto, i campi coltivati, i pascoli, ammirò l'imponenza e la forza del Mongibello (il vulcano Etna).
Il giovane scoprì il dono dell'amicizia vide anche il dolore della sofferenza, l'inimicizia, l'invidia, l'ingordigia. Vide il peccato mostrarsi suadente ai suoi occhi: conobbe la tentazione, viscida serpe dell'umana esistenza.
Nicolò di fronte alle insidie delle tentazioni, pose il suo cuore nelle mani di Dio con la preghiera, la pratica della penitenza (la metania con la preghiera esicastica), le opere di carità e l'amore per il prossimo, rifuggendo le occasioni di peccato.
Così il fanciullo, quale lucerna nuova, serbò in sé come olio santo il Verbo divino, la Parola di Dio, e accese la fiamma d'una fede inestinguibile: una fiamma di carità, un lume di santità.
Il giovane Politi, saldo nelle parole del Vangelo e nei precetti della Chiesa, divenne egli stesso strumento della misericordia divina; infatti, intercedendo con la preghiera ed il segno della Croce, permise la guarigione dei malati, allontanò i lupi dagli ovili e soprattutto permise la conversione di molti uomini, sottraendoli alle spire di Satana.
Col passare degli anni la Adrano normanna vide crescere Nicolò in saggezza. Sempre pronto a compiere la volontà del Cielo, aiutando il prossimo e materialmente e spiritualmente.
3. Le gesta dei cavalieri, l'adolescenza
Il 17 agosto del 1126 la diocesi di Catania visse uno dei momenti più belli e commoventi, allorquando le reliquie di S.Agata ritornarono a Catania grazie a due soldati bizantini. Gisliberto e Goselmo consegnarono i sacri resti al Vescovo Maurizio dopo un lungo viaggio da Costantinopoli, luogo dove il condottiero bizantino Giorgio Maniace le aveva trasportate dopo averle trafugate il 6 gennaio 1040.
A partire da quel 17 agosto in molte città della diocesi di Catania fu eretta un edicola votiva, una chiesa o intitolato un quartiere alla vergine catanese ed è probabile che proprio in quei giorni di festa che in Adernio, proprio nel quartiere del Caid, detto poi Gaiti, fu eretto un luogo di culto o un'edicola dedicata alla martire catanese proprio a poche decine di metri dal luogo che riteniamo dalla tradizione sia la casa in cui nacque Nicolò.
Agata, martire per amore di Cristo, donna la cui fede eroica e il cui candore verginale brillano nel firmamento dei Santi che intercedono presso il trono di Dio!
Quale grande esempio: la verginità e la consacrazione a Cristo per la vita!
Frattanto il Conte Ruggero II, uomo saggio e scaltro, nel 1128 ottenne con le armi, da Papa Onofrio II, l'investitura del ducato di Puglia, e successivamente, nel 1130 sfruttò lo scisma apertosi alla morte del pontefice, ottenendo dall'antipapa Anacleto II l'incoronazione quale Re di Sicilia.
Questi eventi riecheggiarono in tutta l'isola e suscitarono in ogni città e villaggio molteplici reazioni e commenti.
Adernio, quale importante centro strategico della Valdemone, subì alquanto il fascino di tali eventi. I lavori di edificazione del Castello, che ampliò la Torre Araba precedentemente eretta dai Saraceni, come pure la costruzione e ristrutturazione di molti edifici, avvalendosi di manovalanza araba, furono i segni tangibili della potenza dei Normanni.
La gesta dei cavalieri e i fasti delle corti Normanne! Quanti pensieri dovettero balenare nella mente di Nicolò. E nonostante questo turbinio di fantastiche immagini, egli scelse la via del Signore, scelse la croce di Cristo.
Così Nicolò, sempre più rivolto alla contemplazione dei misteri della passione di Cristo ed alla preghiera costante della Vergine Maria, Madre di Dio, decise di consacrare la sua vita al Signore.
Ma la serpe dell'umanità vide la purezza di Nicolò, vide quel candido giglio crescere in santità e ne ebbe terrore, sferrando un tremendo attacco al valoroso nemico.
Satana, empio e suadente, annebbiò le menti dei genitori, celando ai loro occhi la fiamma di santità ardente nell'animo del loro amato figlio, spingendoli a trovar moglie per il loro erede.
4. La tentazione e la promessa di nozze
Fu così che (intorno al 1134 secondo la datazione di P. Ottavio Gaetani) i genitori di Nicolò, valutando la loro età ormai avanzata, decisero di organizzare le nozze del figlio con una giovane di buona famiglia.
All'avviso di tal decisione, Nicolò, si oppose con risolutezza, rivelò ai genitori di non poter obbedire al loro disegno, in quanto desiderava consacrarsi a Cristo.
Ma la negazione di Nicolò segnò l'apertura di un baratro. Parenti e amici cercarono probabilmente di condurlo ad accettare la scelta di quel futuro costruito con amore per lui dai genitori, ma nulla riuscirono ad ottenere.
I genitori, tuttavita, insistettero fino a costringerlo. Così nelle sue notti Nicolò cominciò a meditare in cuor se fuggire e lasciare tutto per seguire le parole del Vangelo.
Non è chiaro se la costrizione dei genitori portò alla parziale o completa celebrazione delle nozze.
Qui è necessario chiarire che secondo gli usi dei cristiani greci di Sicilia, facendo riferimento vari Eucologi dell'epoca, sappiamo che le nozze (nuptias) consistevano in una serie di riti religiosi distinti, ciascuno con uno specifico significato simbolico-spirituale. Si iniziava con gli sponsalia, che consistevano in una celebrazione svolta subito dopo la santa messa, in cui i nubendi si presentavano dinanzi il sacrario, all'interno del quale era il sacerdote. Venivano benedetti e consegnati agli sposi i due anelli che erano stati deposti alla destra dell'altare (d'oro all'uomo e d'argento alla donna). Dopo di che, grazie alla figura del paraninfo avveniva lo scambio degli anelli. La celebrazione proseguiva fino allo scioglimento dell'assemblea. Gli sponsalia sancivano la promessa di matrimonio, comportando il sorgere di obblighi tra il futuro marito ed il pater familias della sposa, creando un vero e proprio rapporto tra gli stessi sposi che, a seguito della promessa, finivano con l’esser soggetti a buona parte delle norme che regolavano la vita coniugale. In altre parole possiamo ritenere gli sponsalia dell'epoca come qualcosa che vada oltre il concetto di fidanzamento.
Dopo gli sponsalia, infatti, generalmente subito dopo, seguiva il rito liturgico della coronazione degli sposi, con il quale questi si impegnavano a mantenersi puri per i successivi sette giorni. Un rito ricco di suggestioni e richiami alle sacre scritture.
Otto giorni dopo veniva celebrata la solenne deposizione della corona che completava l'unione nuziale dei due sposi che in candide vesti si presentavano davanti a Dio e alla comunità, divenendo marito e moglie.
Parallelamente ai riti sacri, sono da ascriversi i patti e gli usi civili del tempo, che a quel tempo già prevedeno per le classi agiate la stipula di accordi alla presenza di un notaio e di testimoni con le chiare indicazioni relative alla dote, ai doni, agli impegni e alle concessioni alle quali si impegnavano i nubendi. Atto che avrebbe trovato valore legale definitivo con le giuste nozze.
Infatti, le leggi normanne resero prescrittivi gli atti solenni e necessari per le giuste nozze: sponsalia e matrimonium. Estendendo il concetto di sponsalia alle unioni secondi gli usi anche di altre confessioni religiose e richiedendo anche un matrimoniun richiedeva la una celebrazione pubblica. Un modo per raccordare la Chiesa di Roma con quella Sicula e con le varie identità presenti nel territorio, arabe, ebraiche, ecc...
Alcuni racconti seicenteschi si spingono nel racconto ad affermare che Almidoro, alla luce dell'ennesimo rifiuto di Nicolò, in preda all'ira per quell'atteggiamento, segregò il figlio nella sua camera, onde evitarne una possibile fuga: è probabile, infatti, che Nicolò avesse già manifestato con chiarezza la decisione di lasciare la casa paterna sull'esempio dei santi monaci greci allora ampiamente presenti nella Valle di Demenna (oggi Val Demone) e a lui certamente noti.
Per molti secoli e innumerevoli autori, la ratio che risolveva l'enigma del matrimonio è nel breve pontificio di Giulio II che sancì il culto pubblico del Santo, o meglio alcune copie e trascrizioni di questo Breve, dove per mero errore di copia e interpretazione "Nicolao de Polito" viene scritto come "Nicolao de lo Cito", che viene interpretato come "lo sito", "lo zito", ovvero "il fidanzato". Dando luogo a fantasiose e suggestive ricostruzioni dei fatti che mantengono comunque il loro fascino, pur non essendo più sostenibili.
5. "Alzati e Seguimi"
Una notte segnata dalla volontà divina (la prima notte di nozze secondo la liturgia cinquecentesca, legandosi anche ai testi biblici; la notte stessa degli sponsali secondo altri autori seicenteschi; la festa di fidanzamento secondo autori successivi), Nicolò, in preghiera, supplicando Dio di esser liberato da quella prigionia e poter seguire la via della fede e mette in atto la sua fuga.
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Quella notte venne benedetta dal Signore. Il suo infinito amore si rivelò al candido fanciullo in contemplazione, senza destar timore nè turbamento.
Così, colto nell'atto di anelare il Cielo in un respiro intriso di preghiera, si fece manifesta una presenza angelica, recandogli il messaggio del Signore:
"Nicolò! Alzati e Seguimi.
Vieni con me e ti mostrerò un luogo salutare di penitenza dove,
se vorrai, potrai salvare la tua anima."
Egli, senza esitare, pur se con gran dolore per i suoi amati genitori e per tutti coloro che non avrebbe più rivisto su questa terra, scelse la salvezza, abbandonando la casa paterna.
Così iniziò la sua vita eremitica, fortificando il suo spirito in una grotta coperta di cespugli alle falde dell'Etna (identificata dalla tradizione nella grotta esistente in Contrada Aspicuddu, sita ad alcuni chilometri a nord est da Adrano). Armato della fede in Cristo, del digiuno e della preghiera, si rese docile strumento dell'Eterno Amore attraverso l'assidua meditazione della passione del Signore ed inflgiggendosi flagellazioni ed altre mortificazioni.
Non è da escludere che, nella fuga ed in questo avvio di vita ascetica, il giovane Nicolò avesse dei legami qualche monastero esistente in zona. Alcuni autori indicano in tal senso la Chiesa della Madonna di tutte le grazie (tutt'oggi esistente in prossimità della Rocca di San Leo, a Nord della città).
La Grotta in contrada Aspicuddu è una delle bocche laviche più antiche della zona etnea in territorio di Adrano, certamente esistente ai tempi del Santo anacoreta.
6. Il nuovo annuncio, la nuova partenza e la tentazione
La famiglia di Nicolò non si diede pace e lo cercò a lungo, tanto che un giorno, dopo tre anni dalla sua fuga, probabilmente avvisati da qualcuno che l'aveva visto aggirarsi nella zona montuosa all'esterno del centro abitato, furono prossimi alla grotta dove dimorava. Inoltre, divenendo per Nicolò quel luogo poco adatto ai progressi della sua crescita interiore, un divino messaggero recò lui un nuovo avviso:
"Nicolò non rimanere più qui, perché i tuoi ti cercano e se ti trovano, ti porteranno in patria, perdendo ciò che hai iniziato.
Dirigiti verso il luogo che ti mostrerò, verso Alcara, ai piedi del Monte Calanna, dove vivrai il resto della tua esistenza!"
Nicola s'incamminò, con la scorta miracolosa di un'aquila (secondo la tradizione seicentesca) e abbandonato il paesaggio segnato dal vulcano giunse in una radura presso un bosco.
In questo luogo il Demonio in veste di ricco mercante lo tentò: "Dove vai, così misero e solo?"
Rispose il pellegrino: "Nel monte Calanna, presso Alcara, dove sono inviato."
Satana aggiunse: "Vieni con me, avrai miglior sorte. Ti mostrerò le mie città e le mie terre che con gioia donerò a te se compiacerai le mie parole, e nelle quali, ricco dei migliori piaceri, vivrai molto più giocondo che nel monte Calanna".
Nicolò meditò su quelle parole e riconobbe in quel mercante il Tentatore dell’uomo e subito, rievocando nell'anima la Passione di Cristo, rivolse gli occhi al cielo e disse:
"O Signore Gesù Cristo, per le tue cinque piaghe e per la tua passione,
fa' che sfugga ai lacci di questa tentazione".
Parole gradite a Dio perchè pronunciate da un cuore puro. Subito il demonio svanì.
7. Pellegrino tra i Nebrodi. L'incontro con San Lorenzo da Frazzanò.
Lungo il cammino sostò presso il Monastero bizantino sito a Maniace, dove la tradizione ricorda l'incontrò con un giovane monaco, Lorenzo Ravì da Frazzanò.
Lorenzo era cresciuto e formatosi spiritualmente il Monastero bizantino di S. Silvestro di Troina, aveva pressappoco la stessa età di Nicolò e, compresa la volontà del Cielo, fu lui probabilmente a indirizzare il pellegrino Nicolò con affetto fraterno verso il Monastero bizantino di Santa Maria Del Rogato e la guida spirituale del categumeno (abate) Cusmano, detto il Teologo (Don Urbano secondo il poeta Placido Merlino).
Il Santo eremita proseguì da Maniace il difficoltoso viaggio valicando i Nebrodi. Giunse così nel territorio della città d'Alcara (l’odierna Alcara Li Fusi – Messina). Discese lungo la vallata; passò il fiume “a piedi asciutti” (come narra la leggenda), seguì poi l’aquila che lo guidava, risalendo lungo lo scosceso pendio verso il monte Calanna (Kalannia, Kalapnia).
Stremato, giunto a metà della salita presso una zona caratterizzata da grandi massi, fu costretto a fermarsi. La calura e l’assenza d’acqua lungo la via non lo dissuasero dal compimento della volontà del Cielo.
Pertanto con fiducia incrollabile invocò l’aiuto di Dio e non tardò dal Cielo il divino avviso di battere la roccia col bastone ed ottenerne acqua.
Così Nicolò colpì col suo bastone cruciforme il masso che aveva innanzi e subito questo cominciò a trasudare acqua.
Questo luogo è ancor oggi detto Acqua Santa.
Poté pertanto riprendere il cammino inerpicandosi lungo il pendio.
D’un tratto vide l'aquila posarsi su una roccia dalla forma singolare. Un luogo che stringeva il cuore in gola si svelò ai suoi occhi: non una grotta ma un riparo, una spelonca ricoperta di rovi, una tana per serpenti e vipere, un incavo mercè delle intemperie: la sua nuova ed ultima abitazione.
L'aquila s'allontanò e poco dopo ritornò portando con se mezzo pane fresco e fragrante che depose all'ingresso della nuova dimora di Nicolò.
8. Il Monastero di Maria SS del Rogato
Il mattino seguente, come probabilmente indicatogli da Lorenzo, Nicolò si recò presso il Monastero basiliano di Santa Maria del Rogato. Qui trovò la guida spirituale del Teologo Cusmano e scelse di aderire ai seguaci di San Basilio e S. Teodoro Studita, intraprendendo il lungo percorso monastico che lo avrebbe legato per la vita a quella comunità cenobitica. Fu così che indossò l'abito ceruleo da eremita e il microschima (piccolo abito).
Da quel momento, ogni sabato, partendo dal proprio eremo, si recò alla Badìa di Santa Maria del Rogato, percorrendo un impervio tragitto, per partecipare alla celebrazione eucaristica ed entrare in comunione con Cristo, partecipando inoltre ai momenti di preghiera comune e di lavoro tipici della vita cenobitica basiliana.
Le sue giornate, nei pressi dell'eremo, trascorrevano nella preghiera, nella contemplazione: sette volte al giorno meditava la passione di Gesù e versava molte lacrime al pensiero delle piaghe del Signore. Recitava i Salmi e pregava con infinito amore la Madre di Dio, chiamandola “Immacolata Giovenca”, donandole il suo cuore.
Sedava i desideri del cuore e del corpo con la penitenza e con i cilizi, flagellando il suo casto corpo, volgendo il suo spirito completamente a Dio.
Si rese duttile alla mano di Dio divenendo l’immagine riflessa del Suo figlio, nostro Signore.
Soleva spesso levare al Cielo una preghiera:
“O Padre, o Figlio, o Spirito Santo, accogli la mia preghiera,
giacché mi trovo in questa solitudine e in te soltanto ho posto le mie speranze:
quando sarò partito dalla vita, ti supplico, accogli la mia anima.”
9. Nicolò e Lorenzo
Visse presso il Calanna sconosciuto al mondo, trascorrendo la sua vita servendo il Signore nella più grande astinenza, nell'assidua preghiera, commuovendosi fino alle lacrime la notte e il giorno.
La tradizione seicentesca racconta che nel 1162 Nicola, trovandosi presso il Rogato, vide l'amico Lorenzo. Entrambi erano molto cambiati dal loro primo incontro, ma i loro sguardi erano rimasti quelli di un tempo.
I due amici trascorsero insieme quella santa giornata presso l'eremo del Calanna. Lorenzo rabbrividì vedendo l'orribile condizione in cui Nicola aveva vissuto tutti quegli
anni e si stupì di come l'amico avesse fatto a sopravvivere così a lungo in quelle condizioni (nonostante anch'egli manifestasse segni straordinari di santità).
Pregarono e lodarono l'opera mirabile di Dio, cenarono con erbe, radici e col pane (questa volta intero) portato dall'aquila; infine, Lorenzo condivise con il santo amico
la rivelazione ricevuta dal Cielo relativa alla data della propria morte, confidando che questa sarebbe sopraggiunta il 30 Dicembre di quell’anno.
Al mattino del dì seguente si scambiarono l'abbraccio dell'addio, Lorenzo benedì Nicola e gli promise ancora un segno di saluto su questa terra. Nicolò non comprese subito, ma il 30 dicembre, domenica, allorché alla sera la sua grotta fu inondata di luce soave e da un profumo di rose, capì che in quel momento l'Anima di Lorenzo saliva al Cielo e gli mandava l'ultimo saluto.
10. Le pere della carità, la festa della Koimesis e l'ultimo saluto terreno
Pur se sconosciuto al mondo e noto ad alcuni uomini religiosi del suo medesimo stile di vita, tuttavia, durante un giorno d'estate del 1167, a poca distanza dal suo eremo, incontrò due donne dirette verso il paese d'Alcara, ciascuna delle quali portava un cesto pieno di pere.
Nicolò tese umilmente la mano chiedendo in nome del Signore Gesù la carità di un frutto.
Una delle due donne acconsentì, presentandogli la cesta, mentre l'altra si rifiutò. Su colei che fu caritatevole, dopo aver reso grazie a Dio, invocò la benedizione del Cielo.
Giunto presso l'eremo con grande fatica, l'anacoreta, pur sentendo il suo spirito sempre pronto e disposto a servire il Signore, ma ormai estremamente debilitato nel corpo, pregò il Signore di liberarlo dai lacci che lo legavano alla vita terrena e di accoglierlo in Cielo. Poco dopo una voce angelica gli rivelò che la sua preghiera aveva trovato grazie presso Dio, annunziandogli il giorno in cui la sua anima sarebbe presto salita in Cielo.
Nicola ebbe il cuore colmo di gioia e, ringraziato il Signore, si preparò all'ora sospirata della liberazione da questo mondo.
Vari autori affermano che il 15 Agosto, festa della Koimesis, la Dormizione della Madre di Dio, Nicolò si recò al Rogato per l'ultima confessione e ricevere per l'ultima volta il Pane degli Angeli: si congedò da tutti i monaci raccomandandosi alle loro preghiere. Nicolò confidò al Teologo Cusmano il giorno della propria morte e promise di ritornare al monastero.
La leggenda racconta che la vigilia del gran giorno, Nicolò ricevette l'ultima visita della fedele aquila che, dopo aver deposto il consueto pane miracoloso, si librò in alto e prima di scomparire in lontananza compì sulla grotta vari giri per dare l'ultimo saluto all’amico eremita.
Nicolò, commosso per quel gesto, ringraziò e benedì quella creatura di Dio.
11. La beata morte e l'invenzione del corpo santo
Per 50 anni fu come fiaccola ardente assiduo nella preghiera costante e nella penitenza, mantenendosi candido come un giglio e puro come acqua cristallina, nascosto al mondo come un tesoro preziosissimo e di inestimabile valore.
Sotto quella roccia che scelse come eremo lungo le balze del monte Calanna, genuflesso, con la croce fra le braccia ed il libro delle orazioni aperto sulle mani e viso rivolto al cielo, esalò l'ultimo respiro durante la preghiera, avvenne il sereno transito e l'anima dolcissima di Nicolò volò tra le braccia di Dio.
Il mattino della 17 agosto 1167 (il testo a stampa di O. Gaetani riporta un errore tipografico, indicando il 26 agosto) un uomo retto, un agricoltore di nome Leone Rancuglia, spintosi tra le plaghe montuose della rocca Calanna alla ricerca di un bue che aveva smarrito, si trovò nei pressi di uno speco di roccia nascosto dalla vegetazione. Avvicinatosi al nascondiglio vi intravide un uomo in ginocchio: lo salutò e gli rivolse quache domanda.
Osservando l'immobilità dell'uomo genuflesso e non ricevendo alcuna risposta, Leone decise di scuoterlo col proprio bastone e improvvisamente si ritrovò con un braccio paralizzato, inaridito.
Colto da gran timore, Leone si precipitò nella piazza del paese di Alcara e stupore e raccontò a gran voce lo straordinario evento appena accadutogli, mentre contemporaneamente le campane della città di Alcara iniziarono a suonare in maniera prodigiosa.
L'eremo del Calanna era così svelato al mondo ed il tesoro nascosto nella roccia veniva offerto agli uomini!
Venne informato il teologo Cusmano e in breve tempo presto tutta la comunità, guidata da Leone, si recò all'eremo del Santo. Qui il pastore indicò il Sacro corpo ed immediatamente riebbe il braccio sanato.
Tra gli astanti erano presenti anche entrambe le donne che lo avevano incontrato qualche giorno prima e diedero testimonianza di quell'anacoreta, riconoscendone il corpo mortale e affermando inoltre che colei che fu caritatevole vide la sua frutta rimanere fresca, bella, profumata e integra per molti giorni, mentre colei che fu avara vide marcire rapidamente tutta la propria frutta.
Quindi si apprestò una portantina per trasportare quel corpo santo in città, affrontando gli scoscesi sentieri che dal Calanna diretti verso la chiesa maggiore.
Giunti a Sant'Ippolito dovettero mutare le loro intenzioni, infatti, il feretro con il santo corpo dell'eremita divenne così pesante da costringere i portatori a non poter più proseguire verso la destinazione prevista.
Stupiti, tentarono di dirigere il feretro verso diverse chiese della città, pronunciandone il nome di ciascuna ad alta voce, ma senza successo.
Lo smarrimendo generale trovò risoluzione con un evento straordinario che illuminò le menti e i cuori degli alcaresi. Un bambino ancora lattante, alzatosi dritto tra le braccia della madre, cominciò a parlare dicendo al popolo di portare il corpo di Nicolò alla Madre di Dio, la chiesetta del Monastero del Rogato.
L'evento fu accolto come volontà del Santo di mantener fede alla promessa fatta all'abate Cusmano; infatti, i portatori furono capaci di trasportare nuovamente il feretro fino al Rogato. Qui, all'interno di una cassa di cipresso, il sacro e venerato corpo fu collocato presso l'altare della chiesetta, divendendo fin da subito meta di pellegrini e devoti.
Cusmano Teologo compose un superbo testo liturgico sul Divino Nicola Politi d'Adrano e un altro monaco sincrono (forse il medesimo Cusmano) si occupò di metterne per iscritto la vita.
Fu pressappoco con queste parole che la città d'Alcara scoprì, celebrò il Giglio del Calanna e se ne innamorò:
GESU' CRISTO VINCE
O Nicola, cittadino di Adrano,
che in Catania fosti gradito a Dio e,
incastonato nel Monte Calanna,
hai portato a compimento la tua vita ascetica
facendo il tedoforo
operando molti miracoli:
ora onorato nella città dei Santi,
nel monastero della SS. Madre di Dio,
prega per le nostre anime.
12. La rogazione miracolosa accompagnata da guarigioni e conversioni.
La traslazione del corpo santo e l'autorizzazione al culto pubblico.
Il corpo di Nicolò Politi d'Adrano, ricevenriposando presso il Monastrero della Santa Madre di Dio si conservò pressocché incorrotto per 336 anni
Un evento sismico di significativa entità si abbattè il del 10 giugno 1490 su quei territori, causando una serie di danni nella città di Alcara e lesionando gravemente il complesso monastico del Rogato, rendendolo inabitabile.
Il sisma, però, non demolì la chiesetta del monastero dedicata alla Madonna, ospitante quello che gli abitanti di Alcara e dei luoghi vicini solevano ormai chiamare il Corpo Santo.
I diplomi esistenti presso un Tabulario dell'Archivio di Stato di Palermo, fanno ritenere che i monaci del Rogato sopravvissuti al sisma si trasferirono presso il monastero di Fragalà di S. Filippo di Demenna sopra Frazzanò, cui erano sottoposti, portando con sè quanto poterono dal Rogato, ivi compresi gli antichi diplomi dei privilegi concessi e riconosciuti al diroccato monastero di S. Barbaro di Demenna negli ultimi anni di vita del Conte Ruggero (1097-1110).
L'8 Luglio 1491, papa Innocenzo VIII unì i monasteri di S.Filippo di Fragalà e di S. Maria di Maniace, cedendoli con le loro dipendenze e i loro possedimenti all'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, dove al definitivo decadimento delle due comunità monastiche furono trasferiti i tutti i loro beni e numerosi manoscritti.
L'esame di questi permette di ipotizzare che la fondazione del Monastero della Santa Madre di Dio, detto il Rogato, sia conseguente alla rovina di S. Barbaro e alle beghe sorte con il Monastero di S. Teodoro di Mirto e con gli abitanti della zona circa i Sigilli diplomatici delle relative dipendenze.
I fondatori e primi abitanti del Rogato furono forse i medesimi monaci e il medesimo categumeno (abate) di S. Barbaro, messere Cosma (Cosimo o Cusmano)?
Dai diplomi manoscritti, inoltre, si evince che all'epoca del categumeno Cosma le terre dove sono l'Acqua Santa e l'eremo di S. Nicolò Politi ricadessero nelle terre di S. Barbaro e, infine, che Ruggero avesse assegnato alle dipendenze del monastero un uomo di nome Leone figlio di Melacrino, con i suoi eredi.
Il Corpo Santo rimase presso il rogato privo di corruzione per 336 anni.
Il 10 maggio 1503, a seguito di una siccità che si protraeva da molti mesi e minacciava la sussistenza degli abitanti del paese, una grande rogazione (un pellegrinaggo penitenziale) si diresse al Monastero del Rogato, presso la chiesetta dove dimoravano i resti mortali incorrotti del "Beato Nicolao", per invocare la sua intercessione. Trasportarono quindi all'esterno della chiesetta il Corpo Santo, come già fatto più volte fruttosamente nel passato.
In poche ore s'addensarono le nubi e la pioggia cadde come una benedizione e molti presenti, accostandosi devotamente all'arca contenente il venerato corpo santo, ottennero la guarigione dalle proprie infermità, come la guarigione di molti uomini affetti da voluminose ernie inguinali.
Un evento, inoltre, destò ancor più meraviglia tra i presenti. Una donna che viveva nella lascivia del peccato si accostò al venerabile corpo per toccarlo, ma l'arca intera si allontanò via da lei, dinanzi gli occhi di tutti. La donna cadde in lacrime e compreso il segno inviatole da Dio si convertì; dopo la confessione sacramentale si avvicinò al corpo dell'eremita sul quale depose un bacio con commozione e gratitidune.
Un predicatore francescano, con parole toccanti proferì una solenne omelia e sollecitò gli alcaresi ad adoperarsi per ottenere il beneplacitò del Santo Padre al culto del Santo eremita d'Adrano.
Dopo tali eventi prodigiosi, si diffuse per l'isola la fama del grande santo taumaturgo d'Adernò, il cui Corpo Santo dimorava incustodito nella chiesa diroccata della Madre di Dio presso Alcara.
Dei cittadini di Adernò, venuti a conoscenza dei fatti, considerandosi in diritto di possedere i resti mortali del glorioso concittadino, decisero di trafugarne il corpo dalla chiesa disabitata di Santa Maria. Il tentativo però fallì, al suono prodigioso della campana della chiesetta del monastero, che richiamò gli abitanti di Alcara accorrere per proteggere le sante reliquie.
A seguito di quanto accaduto, valutando quel luogo troppo isolato, temendo facili trafugamenti del Corpo Santo del Beato Nicolao, gli alcaresi decisero di trasferire il corpo santo all'interno della città.
Otto tra i più illustri uomini di Alcara (il presbitero Pietro Rosata, l'egregio Giovanni Gembundi, Giovanni Xharra, una altro Giovanni Xharra, Fiorino Marino e altri di cui non si conscono i nomi) trasportarono segretamente l'arca con il corpo dell'eremita nella chiesa di San Pantaleone, la "parrocchia", sita all'interno del centro abitato di Alcara.
Tuttavia la traslazione del Corpo Santo avvenne illegittimamente, senza alcuna autorizzazione della Santa Sede. Fu quindi stabilita la stesura e l'invio di una supplica sanatoria al Papa, chiedendo inoltre di poter celebrare liberamente e senza molestie, la festa in onore del santo eremita sia in paese sia presso la chiesa eretta sull'eremo nella ricorrenza della sua morte, il 17 agosto.
Il 7 giugno 1507, il papa GIULIO II concesse quanto richiesto nella supplica, autorizzando il culto pubblico e sancendo di fatto la santità dell'eremita di Adrano.
13. Il Santo concittadino
L'intercessione di San Nicolò non cessò di mancare né di essere frutto di conversione e grazie copiose per tutti coloro i quali lo invocassero devotamente e anche nella città natia, Adrano, dove il ricordo della prima sorgente miracolosa e del primo eremitaggio erano ancora vivi nei ricordi del popolo quando giunsero le notizie del ritrovamento di Nicolò Politi e della successiva elevazione agli onori degli altari. Crebbe ben presto l'amore e la devozione verso il proprio Santo concittadino arricchita di doni di grazia e salvezza.
Anche se oggi non è possibile stabilire con esattezza l'anno primo in cui Adrano riscoprì il suo concittadino e la sua santità, con certezza è possibile affermare che dal 1669 in Adrano si avviarono le pratiche notarili per la costruzione di una chiesa laddove la tradizione riportava la nascita del santo.
È certamente da allora che la città, anche grazie ai suoi più illustri cittadini, cercò di riportare in patria il corpo del Santo concittadino o almeno un'insigne reliquia.
Fu proprio nel novembre del 1674 che il Barone Giuseppe Spitaleri Bartolo (Bertolo) di Adrano (dopo aver costruito a proprie spese il vano maggiore della Chiesa del Santo con quattro altari, quadri in pittura e campana), giunto in Alcara con il Sac. Mario Scalisi e al sig. Antonino Morabito, riuscì a ricevere segretamente dal priore guardiano dei padri cappuccini d'Alcara, padre Antonio da Alì, 18 fogli di pergamena del libro che San Nicolò Politi aveva con sé al momento della morte. Non ci è dato sapere se fu atto di simonia, tuttavia, se non fosse stato per quel gesto, oggi non avremmo più nulla di quel prezioso volume, visto che nella seconda metà del 1900 le pergamene restanti e custodite in Alcara furono rubate da mano sacrilega insieme al tesoro degli ex-voto donati al santo.
Nella seconda metà del 1700, il sacerdote ex agostiniano Giuseppe Vinci di Adrano, ospite a Messina dell'Arcivescovo Mons. Carrasa, il 3 Agosto, ottenne in dono una piccola reliquia ex ossibus del Santo concittadino, allora custodita nella cappella privata dell'Arcivescovado. Tale reliquia fu accolta con sommi onori nella città di Adrano, custodita presso il Monastero di S. Chiara e, da lì, impiegata fino al 1926 nella processione del 2 Agosto sera che si concludeva fino alla Collegiata (l'attuale Chiesa Madre) per la celebrazione dei Vespri.
14. L'amara disputa
Frattanto le reiterate infruttuose richieste alle autorità civili e religiose di Alcara Li Fusi da parte della città e del clero di Adrano al fine di ottenere il corpo del Santo concittadino, o almeno parte insigne di esso, spinsero dal 1851 le autorità e il clero di Adrano ad avviare le pratiche per il trasferimento di parte insigne del corpo del Santo interessando le massime autorità civili e religiose del tempo, compresa la S. Congregazione dei Riti.
Quest'ultima, in maniera risolutiva, con il Rescritto Pontificio del 14 novembre 1924, accoglieva la richiesta e disponeva la consegna alla comunità di Adrano del capo o di un braccio intero del Santo.
Tuttavia, nel corso degli anni, la strenua e risoluta opposizione della città e del clero di Alcara a concedere anche una minima parte del loro Santo Patrono diede luogo a una disputa sulle reliquie del Santo tra le due cittadine che assunse toni quanto mai amari e spiacevoli.
L'opposizione alcarese, che sottolineò il fatto che Adrano possedesse già metà delle pergamene del libro del Santo e una sua seppur piccola reliquia, sostenne come un'immutabile verità la ferma convinzione che Dio non avrebbe mai permesso che una pur minima parte del corpo del Santo potesse essere portato via da Alcara, proprio in virtù dei numerosi racconti storici degli eventi prodigiosi legati alla violazione del corpo del Santo, diffondendo peraltro il timore che in caso contrario le conseguenze sarebbero potute essere nefaste.
Tale posizione ferma e di chiusura, non fece altro che condurre la comunità di Alcara a vedersi costretta a cedere e nel modo più doloroso.
Fu così che il 24 agosto 1926, per dare esecuzione di quanto disposto dalla Santa Sede due anni prima, le autorità civili e religiose di Adrano ottenuto l'intervento del Governo dell'epoca, il quale mise a disposizione 200 Carabinieri, 100 Militi e 30 Agenti di P.S. per il mantenimento dell'ordine pubblico in Alcara e permettere il prelevamento di una reliquia insigne del Santo senza alcun disordine.
L'Arciprete di Alcara sac. Lanza, invitato a presenziare alle operazioni di prelevamento e aprire lo Scrigno Reliquiario, preferì non partecipare, pur fornendo le chiavi dello scrigno.
Neppure il Presidente del Consiglio Amministrativo della Festa accettò l'invito a partecipare alle operazioni.
Non riuscendo a reperire le chiavi del sacello, questo fu forzato dai tecnici delle forze armate venuti da Palermo.
Aperto il sacello, i due incaricati (sac. Angelo Bua e sig. Giuseppe Cortese) inviati dal Card. Nava, Arcivescovo di Catania ed esecutore del Rescritto Pontificio, prelevarono dallo Scrigno la cassetta reliquiaria con il Sacro Teschio di San Nicolò Politi privo della mandibola. Non riuscirono, però, a ricomporre l'intero capo del Santo, vista l'opposizione da parte a ogni ulteriore ricerca e prelevamento all'interno dello Scrigno dai funzionari presenti all'esecuzione dell'ordinanza .
Portato a Catania, dove sostò per alcuni giorni, il Sacro Teschio di S. Nicolò Politi giunse nella città di Adrano il 29 agosto 1926, dove una fiumana di fedeli, provenienti anche dai paesi limitrofi, lo accolse festante.
In questa storia non ci furono vincitori né vinti, non ci furono ladri né derubati, pur se rattrista ed è al di fuori di ogni logica di fede sentire e leggere ancora oggi di liti, recriminazioni e amarezze per il corpo di un Santo, di reciproche accuse, richiamando la storia o cercando tra le pieghe dei racconti e dei fatti il sostegno della propria ragione.
Bene, mi si permetta di suggerire a tutti di smetterla, sono proprio i frutti di tali atteggiamenti che offendono la memoria, le virtù e l'esempio del Santo.
Adrano e Alcara hanno avuto un dono grande, un dono di Dio, un figlio, un amico, un fratello, un padre, un esempio, un uomo che li ha invitati e li invita per primi a seguirlo sulla via della santità sulle orme di Cristo Gesù, un Santo che intercede presso la Gloria di Dio Padre per chi a lui si affida e per tutti coloro i quali sono a lui affidati dalla Volontà di Dio.
15. La fede smuove le montagne
Nel corsi degli anni numerosi tentativi di rivedere riunito il Corpo Santo e in Adrano e in Alcara hanno fronteggiato la durezza di cuori, eventi e dei tempi, ma la misericordia di Dio non ha mai smesso di ascoltare le incessanti preghiere dei tanti fedeli che hanno impetrato la grazia di un dono così grande da vivere in spirito di comunione e di gioia.
Passando dall'embrionale gemellaggio avvenuto negli anni '80 sotto l'impulso del compianto Angelo Buscemi di Adrano e l'allora sindaco Angelo Spinello di Alcara, proseguendo con i rispettivi inviti a vivere insieme i momenti ufficiali delle celebrazioni nicoliniane, con l'avvento di una più matura devozione al Santo, pur conservando la sua autentica genuinità e l'accorato legame e amore al Santo penitente eremita, si è giunti al momento in cui il richiamo all'unità cristiana abbia vinto su tutto nell'anno 2017 in cui si celebra il IX centenario della nascita del Santo.
Il 3 maggio 2017 le due comunità hanno vissuto un primo momento speciale di fratellanza con la presenza in Alcara delle Sacre Pergamene del Libro del Santo custodite in Adrano. Ho assistito da fedele a un bellissimo momento di fede commossa, sincera, semplice.
Il 3 di Agosto in Adrano e il 17 di Agosto in Alcara Li Fusi, infine, si è avveto il sogno di tutti i devoti: due eccezionali ricongiunzioni del Corpo Santo con i rispettivi scrigni reliquiari recati in solenne processione/pellegrinaggio da una cittadina all'altra, in occasione delle rispettive solennità patronali.
Il 3 Luglio 2022 un gruppo di giovani del Cinecircolo Giovanile Salesiano di Biancavilla (CT), diretti dal regista Armando Bellocchi, hanno presentato a Taormina un film cinematografico ispirato alla vita di San Nicolò Politi, in piena emergenza pandemica.
Compiendo i suoi passi terreni verso la santità, Nicolò Politi ha dato e continua a dare testimonianza al Vangelo, vegliando su di noi dal Cielo, contemplando viso a viso il Signore.
Autore: Gaetano Sorge.
Salmo 62 (Testo CEI 2008)
2 Solo in Dio riposa l'anima mia:
da lui la mia salvezza.
3 Lui solo è mia roccia e mia salvezza,
mia difesa: mai potrò vacillare.
4 Fino a quando vi scaglierete contro un uomo,
per abbatterlo tutti insieme
come un muro cadente,
come un recinto che crolla?
5 Tramano solo di precipitarlo dall'alto,
godono della menzogna.
Con la bocca benedicono,
nel loro intimo maledicono.
6 Solo in Dio riposa l'anima mia:
da lui la mia speranza.
7 Lui solo è mia roccia e mia salvezza,
mia difesa: non potrò vacillare.
8 In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
il mio riparo sicuro, il mio rifugio è in Dio.
9 Confida in lui, o popolo, in ogni tempo;
davanti a lui aprite il vostro cuore:
nostro rifugio è Dio.
10 Sì, sono un soffio i figli di Adamo,
una menzogna tutti gli uomini:
tutti insieme, posti sulla bilancia,
sono più lievi di un soffio.
11 Non confidate nella violenza,
non illudetevi della rapina;
alla ricchezza, anche se abbonda,
non attaccate il cuore.
12 Una parola ha detto Dio,
due ne ho udite:
la forza appartiene a Dio,
13 tua è la fedeltà, Signore;
secondo le sue opere
tu ripaghi ogni uomo.